A cura di A.Mancini e V.Verratti
Cesare de Titta nacque a Sant’Eusanio del Sangro (Ch) il 27 gennaio 1862 ed ivi morì il 14 febbraio 1933. Rimasto prematuramente orfano di padre, il notaio Vincenzo, fu cresciuto ed educato dalla madre Sofia Loreto.
A sedici anni entrò nel Seminario di Lanciano e, già conoscitore di latino e abile nei volgarizzamenti in versi, concluse in poco più di tre anni il corso quinquennale. Costretto a rinunciare alla carriera militare per una malattia agli occhi,vestì l’abito talare ma, come ebbe a notare G.Titta Rosa (La Stampa, 17-III-1933), “…del prete non aveva nulla fuorché la veste e se la raccoglieva sulle ginocchia sedendosi, con lo stesso gesto del pastore che si tira su il cappotto”.
Dal 1881 al 1889 insegnò latino e greco a Venosa presso il Seminario,di cui fu anche rettore, ed è questo il più lungo periodo di assenza dalla sua terra dalla quale non si staccherà mai, preferendo alle lusinghe di incarichi importanti presso le Università di Roma e di Napoli la sua “Fiorinvalle”, la villula per la quale passeranno, come ospiti illustri, personaggi della cultura nazionale da Gabriele d’Annunzio a Luigi Pirandello, da Giovanni Gentile a Paolo Orano, da Luigi Illuminati a Domenico Tinozzi, da Francesco Paolo Michetti a Gennaro Finamore.
Il soggiorno nella patria di Orazio fu intenso di studi; qui maturarono i Saggi di traduzione da Catullo che, stampati a Lanciano nel 1880, gli procurarono da parte del Ministero il diploma di insegnante di Lettere e a Lanciano insegnò, prima nel Seminario e poi, in seguito a concorso, nel locale Ginnasio dal 1891 al 1926. Fu anche consulente della Casa Editrice Rocco Carabba per la quale stampò, tra l’altro, due pregevoli e famose grammatiche per l’insegnamento della lingua italiana e di quella latina.
De Titta non esordì come poeta dialettale. Felice signore del ritmo latino, italiano e vernacolare, come Ennio egli potè di sé dire: “Ho tre cuori perché posseggo tre lingue” e, pur nella triplice varietà dell’espressione, un elemento conferisce unità fondamentale d’ispirazione a tutta la sua poesia: lo spirito classico che lo portava a una visione serena e armonica della vita umana. Prima degli impeccabili Carmina, il lungo esercizio condotto sui classici con rigore filologico dette, oltre ai ricordati saggi catulliani e a varie note critiche, le traduzioni di un’ode di Saffo, dell’ode Alle Valchirie del Carducci che con l’autore si congratulò ( lett.27 nov. 1898 in F.Galluppi, Il volto di un letterato, Vecchio Faggio, Chieti, 1989), di componimenti di G.Rossetti, G.Mazzoni, C.De Azeredo e nel 1900 delle Elegie Romane del d’Annunzio, l’amico fraterno al quale il De Titta rese numerosi servigi apollinei (“Ho bisogno, o artefice paziente, di sette distici leonini…”lett. s. d. in F. Galluppi, cit.) e di cui tradusse pure, in dialetto abruzzese, tra il 1904 e il 1923, la Figlia di Iorio (G. d’Annunzio La figlia di Iorio con a fronte la trad. in dialetto abruzzese di C.de Titta, Centro naz. studi dannunziani, Pescara 1988; cfr. pure C. de Titta , Teatro, vol. IV, Itinerari, Lanciano, 2000).
In lingua latina lasciò tre volumi di Carmina, di cui uno solo pubblicato in vita (Carabba,Lanciano 1922), ristampato come il II (Sansoni, Firenze 1952) nel 1998, mentre il III è stato pubblicato nel 1986. I componimenti nel costrutto semplice e vivo, senza imitazioni di lessico e di forma e nel gusto di una originale adesione alla lingua latina, lo fecero riconoscere “maestro di classicità”(V.Ussani, Comm.di C. de T., Accademia dei Lincei, marzo 1933) e “artista che si esprime in latino come se questo fosse la sua lingua nativa”(F. Calonghi, lett. 31 genn. 1931 e segg. in F.Galluppi, cit.). La produzione in lingua è oggi sistemata e raccolta, con pubblicazione anche di inediti, in Poesie, voll.2, Itinerari, Lanciano,1988. Il primo volume raccoglie Elegie lontane, per gran parte inedite; Juvenilia, pubblicate presso tip. Artistica, Venosa, 1883; Frammenti di un canzoniere, inediti; Appendice, poesie eterogenee, tra le quali figurano anche quelle di Nella vita oltre la vita(De Arcangelis, Casalbordino.1900). Il secondo volume comprende: In monte e in valle, liriche inedite in gran parte come quelle de I canti del ritorno; i Sonetti, arricchiti di nuove composizioni rispetto all’ed. del 1922 (De Arcangelis, Atri); Appendice, stornelli scritti per occasioni varie. Il primo libro delle Cartoline, (Bonanni, Ortona 1914; Lanciano,Itinerari 2000), presenta un De Titta conviviale, pieno di garbata ironia che usa il sonetto come “cartolina postale” per salutare gli amici. I testi di un florilegio “Così…come parlava il cuore”, Palmerio, Guardiagrele 1933, curato da Luigi Illuminati e pubblicato postumo, sono compresi nel II volume di Poesie e l’ordine restituito riflette il disegno dell’autore.
Nel 1919 con l’edizione definitiva di Canzoni abruzzesi (Carabba, Lanciano) e con Nuove canzoni abruzzesi del 1923 (i due volumi sono stati raccolti in Canzoniere, Lanciano, Itinerari, 1992) il De Titta entrò nella storia della poesia in dialetto e ne restò l’esempio più alto ed il punto di riferimento costante. Scelse come lingua quella parlata nel suo paese, l’antica Monteclum: idioma di un piccolo comune del chietino ma di grande importanza perché “con poche, leggiere varianti è praticato in quasi tutto il bacino del Sangro ed è compreso in tutta la regione”. Quanto alla grafia preferì, diversamente dal Finamore, quella etimologica, perché questa avrebbe reso meglio il significato delle parole e si sarebbe meno discostata dalla grafia della lingua nazionale. “Le canzoni del De Titta, scriveva B. Amorosa, dimostrano che l’elevazione del nostro dialetto a strumento d’arte è fatto compiuto” ed Ettore Janni (Corr.della sera,16-VI-1919) coglieva a pieno il significato di tale poesia, precisando “il De Titta è un geniale interprete: vorremmo dire uno strumentatore sagace dei frammenti di musiche raccolte in mezzo ai suoi”.
Nel 1923 per la Vallecchi di Firenze furono pubblicati i poemetti di Gente d’Abruzzo ( Lanciano, Itinerari 1997) e nel 1924 per la Carabba di Lanciano due volumi di Teatro, mentre nel 1920 erano stati pubblicati (ibid.) A la fonte, dramma in un atto e La Scuncordie , commedia di un atto (oggi tutto il Teatro è stato raccolto in un cofanetto di quatto volumi, Lanciano, Itinerari 2000). Nel 1925 (Carabba, Lanciano; Itinerari, ibid. 1970, 1992) apparve il volume Terra d’Oro, universalmente indicato come il vertice dell’arte detittiana. Chiude la stagione dialettale ed anche quella artistica (l’ultima pubblicazione Cantus et Flores, del 1930, fu scritta per il bimillenario virgiliano) Acqua Foco e Vento (Carabba, Lanciano, 1929; Itinerari, ibid. 1996) dedicato a Giovanni Gentile. Il poemetto dall’apparente diversità dei temi e dei toni segue un filo ideale che chiude aspetti di una teoria poeticamente vissuta nell’ambito di un monismo panteistico. “Tutti i dati della sua opera”, scrive F. Brevini, Le parole perdute, PBE, Torino, 1990,p. 218, “estetismo, vitalismo, sensibilità georgica, classicismo, gusto folcloristico ci riportano ad una costellazione che si situa tra Pascoli e d’Annunzio”, ma va precisato che il De Titta, rafforzando la sua naturale tendenza al gusto della chiarezza formale,si esprime con originalità di canto e reagisce alla “dannunzite” dominante (Ettore Paratore Il Tempo,11-VII-1987),senza subire contaminazioni vistose da parte dei Crepuscolari e del Pascoli. Conoscitore scaltrito della poesia dannunziana, ma artista di diverso temperamento, non fu mai dannunziano per sua intima natura. Il parallelo con il Pascoli(Pier Paolo Pisolini e M. Dell’Arco, Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma ,1952),troppo spesso supinamente riproposto,trova semmai fondamento, come ha osservato G.Oliva “nella comune tensione all’universo classico vissuto nella rispettiva coscienza”. La sua istintiva tendenza alla musicalità non viene mai adulterata da squisitezze e preziosismi e si esprime con “una generosa solarità” (Ettore Paratore,cit.), solarità che senza mai essere accecante si esterna nei termini ricorrenti di oro, calore, riso, bellezza e una sensualità ora sottile e latente ora scoperta e ammiccante mai torbida e malata connota il suo canto. La sua “dialettalità pur mobilissima è lasciata convenientemente aderente ad una dialettale classicità di sfondo, alla quale egli risospinge , come verso un patrimonio collettivo che agisce su di lui con una forza spirituale dell’avito, del tradizionale, la sua ispirazione poetica”(I. Testa Il Messaggero,12-III-1943).